Cinque Nuovi Vaccini

Siccome sono un radical chic che indossa solo gioielli di The Great Frog London (no, i Rolex no, mi fanno cagare. Va bene tutto eh, ma sono le Hogan degli orologi) che ultimamente è ossessionato dai fatti, dalla scienza, ma soprattutto dal contraddire l’australopiteco che questo Paese si ritrova come ministro dell’Interno –che poi la locuzione “Ministro dell’Interno” è davvero orrenda, sembra designare uno che si occupa di esami della prostata e benessere del colon-retto– ho deciso che 10 vaccini non sono troppi: sono troppo pochi.
Ai bambini di sei mesi in Italia ne andrebbero somministrati 15. Ovviamente, questi nuovi cinque vaccini sono di mio brevetto e, al contrario di Burioni, io i miei interessi nel farli somministrare li avrei eccome.
Di seguito l’elenco, che ho già fatto approvare dalla Wanna Marchi Foundation for Alternative Care:

1- L’anti-tatuaggetto.

L’adolescente medio italiano, raggiunti i diciassette-diciotto anni, sente che la vita ormai gli ha già impartito delle grandi lezioni. Insegnamenti edificanti come “se stasera bevi tre negroni domani al posto del letto ti ritrovi un Pollock di vomito” oppure “piantala di tingerti i capelli di nero pece se sei castana, sembri solamente una cartomante di Ragusa in crisi di mezza età”.
Messi sotto pressione dalla diffusa convinzione che un tatuaggio debba avere necessariamente un significato profondo e comprensibile solo a chi se lo fa, puntualmente i nostri adolescenti trasformano le lezioni di vita di cui sopra in abominevoli, riluttanti, catastrofici tatuaggetti.
Infinitini. Scacciapensierini. Rondinine. Maorini. Tribalini. Tutti soggetti scontati e al diminutivo, insomma.
Numerosi studi in doppio cieco hanno confermato che con l’anti-tatuaggetto, somministrabile in trivalente con l’anti-truccopermanente e l’anti-frenchalleunghie, i soggetti, raggiunta l’adolescenza, smettono di fracassare i coglioni a genitori e genitrici con le loro idee bislacche e anzi, si mettono a risparmiare soldi per tatuarsi a venticinque anni da gente del calibro di Pietro Sedda. Per la cronaca, per tatuarsi da lui più che risparmiare fate prima a rapinare un paio di farmacie.

2- L’anti-ciabbatto.

Ultimamente, non so se l’avete notato vostro malgrado, ai piedi di molti homo sapiens masculini generis sono comparsi dei mostruosi ciabbatti comodi. Non contenti della loro discutibile scelta in fatto di stile, a questa calzatura spesso i nostri “normies” associano il calzino bianco di spugna. Ecco, se anche a voi vedere questa roba fa venire prurito ovunque e aerofagia, non temete: l’anti-ciabbatto in futuro ci libererà da casi di mødå-merda come questi. Grazie a un particolare brevetto, nei vaccinati l’immagine ottica di un ciabbatto con calzino di spugna si tradurrà in un rilascio istantaneo di impulsi elettrici da 220 Volt nei motoneuroni; praticamente sarà come se prendessero una forchetta e la infilassero nella presa della corrente.
Non ringraziatemi eh.

3- L’anti-zzinghiro.

No, non sto parlando di vaccinare i Rom, e nemmeno di un vaccino contro il meticciaggio. L’anti-zzinghiro non interferisce con i vostri rapporti con la comunità sinta, bensì con il Rom-dentro-di-voi*. Per intenderci, il Rom-dentro-di-voi è quell’archetipo dell’inconscio collettivo che vi fa fare cose come fotografarvi la Louis Vuitton, il Rolex, la maglietta Baci&Abbracci e ve le fa postare su Instagram nel vano tentativo di farci venire invidia. Sì, peccato che il massimo risultato che ottenete è che vi blocchiamo alla seconda foto con la bocca ad ano di barboncino e il bracciale Pandora in bella vista.
Con l’anti-zzinghiro il sistema immunitario dei vaccinati produrrà delle potenti immunoglobuline che manderanno in cancrena il Rom-dentro-di-voi, liberando il genere umano da tutti quei soggetti, fastidiosi come una gonorrea, che girano con l’iPhone X e poi chiedono lo sconto al salumiere.

4- l’anti-fastfashion.

In caso non lo sapeste, catene come Zara e H&M le vostre favolose magliette da tre euro le fanno cucire, quando va bene, in Bangladesh a dei bambini con giusto due-tre arti funzionanti oppure a delle donne che, a furia di inalare le tinte per i jeans, adesso hanno la pelle color Levi’s 501.
Con l’anti-fastfashion i vaccinati non solo avranno un conato di vomito ogni volta che metteranno piede in un negozio di proprietà Inditex, ma cominceranno a fare ragionamenti logici tipo “se faccio shopping due volte all’anno, anziché chiudermi ogni domenica al Centro di Arese, non solo risparmio, ma posso pure comprarmi roba figa” oppure “minchia ma esistono pure magliette che non si sciolgono come l’ostia al secondo lavaggio in lavatrice?”.
Quando non vedrete più in giro chiodini gialli di Zara o discutibili top fatti con la carta da culo tirata su dal Gange saprete chi ringraziare.

5- l’anti-alitosi.

Ultimo ma non ultimo, il quinto vaccino da somministrare ai nostri nuovi nati non può che servire a liberarci di una delle grandi piaghe del ventunesimo secolo: l’alitosi. Non parlo di alitosi occasionale (tipo quella che viene quando vostra madre ha cucinato il pollo all’aglio e diventate una specie di lanciafiamme antivampiro) ma di quella recidiva. Quella che ha il vostro collega di lavoro che è tanto simpatico, ma minchia Giacomo, sono due mesi che mi parli e dopo ogni chiacchierata mi devo fare la Rinazina spray per evitare la sinusite: fatti una lavanda gastrica con l’olio essenziale di pino mugo, che magari ti passa sto fiato di pantegana che ti ritrovi. Ecco, quel tipo di alito lì.
Con l’anti-alitosi le difese immunitarie dei vaccinati non solo stermineranno l’Helicobacter Pilorii, ma creeranno nello stomaco le condizioni per poter ingoiare Arbre Magique senza effetti collaterali. Magari però non fatevi sfuggire le cose di mano, che da lì a farsi gli shot di Ace Gentile il passo è breve.
*Devo alla pagina Il Deboscio questa definizione.

Mai guardarsi indietro, mai darsi per vinti.

Il palco del Fabrique si rabbuia, poi si tinge di cremisi. La macchina del fumo lo riempie di nebbia e per tutto il locale comincia a riecheggiare un suono che ricorda un battito cardiaco: lo riconosco subito, è l’inizio di Falling.

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Una foto del concerto delle Haim a Milano.

Da destra comincia a camminare verso la batteria posta al centro del palco una figura snella, gambe che non finiscono più, camicia di raso lilla rigorosamente infilata nei pantaloni di velluto. È Danielle Haim, la sorella di mezzo del trio. La luce tipo Dio-misericordioso-che-squarcia-le-nubi di un faretto si accende su di lei, ed ecco che inizia lo spettacolo. Danielle sorride e comincia a suonare la batteria, con la naturalezza di chi ha avuto le bacchette in mano fin da quando era alle elementari. Niente presentazioni obsolete, niente Hey Milan how are you tonight e altre amenità scontate.
Si parte con il suono atavico e potente dei tamburi, e Danielle ottiene fin da subito quello che lei e le altre sorelle, Alana ed Este, hanno ottenuto in tutti i loro altri concerti: il pubblico entra in visibilio. L’assolo di batteria di Danielle va avanti per poco prima che entri Alana, col suo corpetto e i pantaloni pitonati anni ’70, perfettamente in tema con l’outfit della sorella poco più grande. Poco dopo entra anche Este, minigonna di pelle e canotta leopardata, perché lei è la sorella Haim che non deve chiedere mai.

Il piccolo concerto di batterie delle tre sorelle si fonde lentamente con l’inizio di Falling, e quando Danielle pronuncia le parole iniziali della canzone, quelle che anni fa mi fecero innamorare di queste tre ragazze losangeline, I give a little – into the moment, like I am standing at the edge, I know, anche io mi sento un po’ sull’orlo del precipizio. Dopo cinque anni finalmente le vedo live.

Falling finisce, con le tre sorelle e il pubblico che ripetono in coro il mantra finale: never look back, never give up, mai guardarsi indietro, mai darsi per vinti, ed è subito il turno di Little Of Your Love – all’improvviso ci sentiamo tutti come nella discoteca del video della canzone. Poi è il turno di My Song 5, con Alana che dà il massimo alla batteria e Danielle che sfrutta la capacità delle sue corde vocali di arrivare a dei bassi allucinanti. Dopo arriva Don’t Save Me, una delle loro prime canzoni, dal ritmo upbeat e coinvolgente. Prima di Want You Back, il primo singolo estratto dal secondo album del trio, Alana tiene a farci sapere che la canzone sarebbe stata scartata da Something To Tell You se non ci fosse stata lei che ha trovato il riff di tastiera iniziale e l’ha resa orecchiabile. Este non concorda, perché anche lei ha messo il suo genio nella produzione della canzone, e le sorelle si tirano tante simpatiche frecciatine che oltre a intrattenere il pubblico fanno capire a tutti quanto queste ragazze in fin dei conti siano come noi, come non abbiano bisogno di fronzoli o eccessi per farsi adorare. Il loro bel rapporto di sorellanza traspare da tutto quello che dicono, perfino da come si muovono sul palcoscenico.
A Want You Back seguono altre canzoni del secondo album, tra cui la title track Something To Tell You e Walking Away, momento in cui le Haim si esibiscono in uno dei loro balli mentre cantano. Una danza semplice, costituita da poche mosse ipnotiche, ballano come si ballerebbe da soli in camera mentre si ascolta la musica.
Poi arriva Nothing’s Wrong, che Danielle migliora ulteriormente rispetto alla versione dell’album facendo delle schitarrate potenti ed emotivamente cariche prima di cominciare a cantare.
Dopo aver chiesto al pubblico se aveva voglia di ritornare al primissimo singolo, le Haim cantano Forever e mi torna in mente quel video fantastico fatto con il collage dei loro filmati d’infanzia, tra gli anni ’80 e ’90, così simili a quelli che mia mamma custodisce gelosamente nel cassettone dei ricordi.

Il video di Forever, in parte girato nel soggiorno (vero) di casa Haim, dove le tre sorelle hanno registrato i loro primi singoli.

È poi il turno di The Wire, un vero e proprio manuale per mollare fidanzate/i, e infine arriva Right Now, una canzone emotiva e profonda.

Il concerto si chiude esattamente come è iniziato: con le ragazze che si esibiscono alla batteria. E non poteva finire in altro modo: quel suono così potente, bold, mi verrebbe da dire in inglese, rappresenta perfettamente queste tre sorelle, grintose, sfrontate e piene di talento.
Come dicono loro: never look back, never give up.

Valentine, il video che mostra tre live delle canzoni contenute in Something To Tell You. Una bomba.

 

Final Fantasy X ha ancora molto da insegnarci.

Il 24 maggio del 2002 usciva un videogame per Play Station che avrebbe rivoluzionato il mondo dei giochi di ruolo: Final Fantasy X. No, non si legge “fainal fantasi ics”, come ho fatto spesso quando ero piccolo, perché questa meraviglia videoludica altro non è che il decimo capitolo della serie Final Fantasy.

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L’affascinante logo di Final Fantasy X, ideato da Yoshitaka Amano.

Per chi non fosse avvezzo al genere, si tratta di una saga di videogiochi entro la quale ciascun capitolo è separato dagli altri: storyline, trama, mondo di gioco e personaggi, infatti, cambiano. Alcuni elementi rimangono invece uguali, o quantomeno simili, in tutta la serie: i nomi delle magie nere, i nomi di certe armi, la presenza di enormi struzzi gialli chiamati chocobo, per fare degli esempi.

Final Fantasy X fu rivoluzionario non solo perché riuscì a sfruttare a pieno il motore grafico – che oggi ci sembra un cesso a pedali – della Play Station 2, ma anche perché per il primo Final Fantasy uscito su questa piattaforma di gioco venne composta da Nobuo Uematsu (forse il compositore più celebre del mondo dei videogiochi) una colonna sonora meravigliosa, toccante, una vera e propria opera d’arte il cui brano più celebre, To Zanarkand, doveteascoltarvelominchiavveloce a questo link.

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Le rovine di Zanarkand viste dal Monte Gagazet.

La trama di Final Fantasy X (sulla quale non posso dilungarmi, ma farò dei riassuntini nei punti più sotto; vi rimando a questo bel riassunto se volete rispolverarla tutta: link) ha la potenza narrativa di un enorme romanzo, un bel romanzo aggiungerei, e come tutti i buoni libri ha qualcosa da insegnarci. E allora tra gigantesche balene assassine, guerre tra popoli e religioni fanatiche, cerchiamo di ricavare tre lezioni da questo stupefacente videogioco.

  1. Sin: il Male Assoluto.

    L’antagonista principale di Final Fantasy X è Sin, un gigantesco mostro dalle sembianze di cetaceo venuto al mondo mille anni prima degli eventi di Final Fantasy X, durante una sanguinosa guerra tra due fazioni: Zanarkand (un popolo di invocatori, cioè maghi in grado di invocare creature spirituali chiamate Eoni) e Bevelle (un popolo che si affidava a sofisticati macchinari per fare tutto, compresa la guerra).

    Sin venne creato dalla fazione di Zanarkand a scopo difensivo, ma la potenza di quest’essere sfuggì di mano perfino ai suoi creatori e cominciò così a distruggere qualsiasi cosa si trovasse nel mondo di Spira (il continente orientaleggiante in cui è ambientato Final Fantasy X), Zanarkand compresa.

    Gli abitanti di Spira del presente credono però che Sin (parola che in inglese significa “peccato”) sia una punizione, lo scotto da pagare perché mille anni prima i popoli che abitavano Spira abusarono della tecnologia.

    Parlando da un punto di vista strettamente filosofico, Sin si sarebbe potuto chiamare tranquillamente Evil. Il motivo è che all’interno del gioco Sin rappresenta un Male Assoluto, una creatura il cui unico scopo è la distruzione senza se e senza ma. Eppure, è proprio in virtù della sua esistenza che i popoli di Spira non si fanno più la guerra da mille anni. In qualche modo, Sin, che tutto devasta senza fare preferenze o sconti, è un Male Assoluto che tiene alla larga mali minori, cioè le guerre tra fazioni.
    A corroborare questa mia interpretazione c’è il fatto che in Final Fantasy X-2 (il discusso sequel dell’X), dove Sin non c’è, i popoli di Spira si ritrovano ancora una volta sull’orlo di una guerra.
    Questa caratteristica di Sin fa sorgere un interrogativo: fuor di videogioco, nel nostro mondo, per garantire la pace tra i popoli potrebbe forse servirci un Sin, una creatura senza alcuna morale che non fa distinzioni su dove portare la devastazione?
    E ancora: il Male Assoluto ha la capacità paradossale di tenerci coesi, di spronarci alla solidarietà?

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    Sin, l’antagonista principale di Final Fantasy X
  2. La critica all’abuso della tecnica.

    Come ho detto in precedenza, la guerra combattuta mille anni prima degli eventi di Final Fantasy X coinvolse l’uso di una gran quantità di tecnologia bellica da parte della fazione di Bevelle. Nella Spira presente, l’uso della tecnologia è bandito e condannato da buona parte della popolazione, specialmente quella più religiosa, che vede in essa il motivo per cui sorse Sin in primo luogo.
    Nonostante le cose non stiano proprio così, Final Fantasy X sembra voler fare anche una critica all’abuso della tecnica, soprattutto quando i dispositivi che essa produce vengono impiegati a scopo bellico, causando non pochi problemi etici e morali. D’altro canto, se Bevelle non fosse stata così tecnologicamente avanzata, forse non sarebbe mai andata in guerra contro Zanarkand, che a sua volta non avrebbe creato Sin per difendersi.
    Da questo punto di vista, Sin sembra l’incarnazione dello spirito del mondo, una mostruosa e gargantuesca Madre natura che si ribella agli artifici dell’uomo e ne punisce le velleità.

    Non escluderei peraltro che questo sdegno nei confronti della tecnologia bellica sia l’allegoria della sofferenza derivante dalle ferite inferte al popolo giapponese (dobbiamo ricordare che la Square Enix, l’impresa di videogiochi che produce i Final Fantasy, ha sede a Tokyo) dalle bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki.

  3. Religione e Verità

    Gli abitanti di Spira praticano un credo che somiglia molto a un miscuglio tra shintoismo e buddhismo: Yevon. Il nome deriva da Yu Yevon, il grande Invocatore di Zanarkand che ebbe un ruolo fondamentale nella creazione di Sin.

    I dettami della religione yevonita possono essere riassunti in tre assiomi:
    1) Sin potrebbe venire estirpato una volta per tutte da Spira, ma non si sa come: bisogna sperare che prima o poi non si rigeneri;
    2) Sin può essere eliminato da Spira per un periodo di tempo variabile, chiamato Bonacciale, durante il quale Sin si rigenera per tornare ancora una volta a tormentare gli abitanti di Spira, chiudendo un ciclo di morte e rinascita virtualmente infinito.
    3) il solo modo per liberarsi di Sin è quello canonico: un invocatore parte dalla sua città natale alla volta di un lungo pellegrinaggio, accompagnato dai suoi guardiani. Durante il viaggio l’invocatore visita vari templi di Spira e in ciascuno di essi riceve una benedizione necessaria a invocare creature spirituali, gli Eoni, sempre più forti. Giunto alle rovine di Zanarkand l’invocatore deve sacrificare uno dei guardiani per ricevere l’ultima benedizione, che consente a lui o lei di invocare l’Eone Supremo, in grado di eliminare Sin da Spira per il periodo del Bonacciale. Il costo di questa invocazione è la vita dell’invocatore. Per farla breve, per sconfiggere Sin devono essere sacrificate due vite: quella di un guardiano che si trasformi in Eone Supremo, e quella dell’invocatore, che muore durante l’invocazione.

    Le cose su Spira sono andate avanti così per mille anni: seguendo i dettami yevoniti, un invocatore e un guardiano si sono puntualmente immolati per liberare il continente da Sin per un po’ di tempo, dopodiché Sin si è rigenerato ogni volta, facendo ripartire la spirale di morte da capo.

    Durante gli eventi di Final Fantasy X, tuttavia, Yuna, la protagonista del gioco nonché invocatrice, una volta giunta a Zanarkand per ricevere l’ultima benedizione e l’Eone Supremo scopre che in realtà Sin non può essere sconfitto mai, almeno non seguendo le modalità canoniche. In realtà, lo stesso credo yevonita è perpetratore di Sin e connivente con il Male Assoluto, proprio perché, come spiega Yunalesca (lo spirito che concede agli invocatori l’Eone Supremo) la sconfitta di Sin serve a dare alla gente di Spira la speranza vana che un giorno possa venire distrutto definitivamente.

    È in questo frangente che Yuna si rifiuta di sacrificare un guardiano e sé stessa in onore di una causa persa in partenza: resasi conto della vanità della morte degli invocatori e dei guardiani che l’hanno preceduta, Yuna decide, in comune accordo con i suoi guardiani, di trovare un modo per uccidere Sin una volta per tutte senza dover sacrificare nessuno.

    Nella scelta di Yuna è facile intravedere un Super-uomo, o meglio una Super-donna nietzscheana, in grado di squarciare il velo di Maya, quella fitta rete di menzogne che la religione yevonita ha intessuto negli anni per deformare la realtà di Sin. Yuna si ribella alle false speranze che dava la religione yevonita e decide di farsi lei stessa speranza, la speranza che porterà su Spira il Bonacciale Eterno estirpando Sin una volta per tutte.
    A ben vedere, Final Fantasy X sembra voler fare anche una critica alle religioni organizzate, quelle che prevedono intermediari per poter comunicare con Dio, dipingendole come illusorie, meschine e calcolatrici. È proprio nel momento in cui Yuna rifiuta le menzogne che le propongono gli intermediari religiosi (Yunalesca, ma anche le alte cariche di Yevon: Jiscal Guado, Kelk Ronso, Mika e Kinoc) che riesce a “scrivere la propria storia”, a decidere da sé come interrompere la spirale di morte in cui è irretita Spira risparmiando la vita di tutti.

Ho racchiuso le mie riflessioni solamente in tre punti, ma potrei andare avanti all’infinito: Final Fantasy X è un videogioco che ancora oggi ha molto da insegnare, perfino agli altri capitoli della serie.

Non vi resta che comprare il Remaster in HD per PS4 che è uscito nel 2015, inserirlo nella console e partire per il lungo, impervio pellegrinaggio verso Zanarkand.

Il Paese del sadismo

Circa otto anni fa, in una città grigiastra dell’hinterland di Milano, sdraiata sul divano del salotto di una bell’appartamento al terzo piano di un palazzo c’era una ragazzina che respirava a malapena, con la voce rotta dai singhiozzi e la faccia terrea. Implorava un altro ragazzo, seduto sul lato opposto del divano, di aiutarla. Diceva: “io sono piccola, io sono una bambina cazzo”. Diceva: “ti prego aiutami, non so più cosa fare”. Diceva: “l’altra sera ero sul balcone di casa e per un attimo, ti giuro, ci ho pensato“.

Chi ascoltava queste cose ero io. La ragazzina, mia sorella. E adesso che sono passati quasi dieci anni, anche solo rievocare quel pomeriggio mi fa entrare in tachicardia. No, non era incinta. Era vittima di uno stalker. Di botto mi si era scoperchiato davanti agli occhi un mondo di soprusi, di violenza psicologica, di angoscia sempiterna. Avevo davanti una bambina, come lei stessa si definiva, che forse aveva giocato troppo a fare l’adulta, e a quell’età (13-15 anni) se qualcosa ti sfugge di mano diventa subito soverchiante, una cascata di disastri che finisce col farti dubitare che la tua stessa vita valga ancora qualcosa, un fiume in piena che sfonda gli argini della sopportazione umana, che fa dire a tua madre “credo che tu sia la più grande delusione della mia vita”.

Una cosa era certa: mia sorella aveva giocato con qualcuno di profondamente sadico.

Qualcuno che due giorni prima l’aveva spinta giù per una rampa di scale, e come non si sia spaccata l’osso del collo lo sa solo Dio.

Qualcuno che le ha mandato per mesi migliaia di sms in un italiano incomprensibile, ma che avevano tutti un messaggio di fondo in comune: prima o poi ti ammazzo, tanto la pistola ce l’ho.

Qualcuno che, ebbro del proprio sadismo, rassicurato dalla cultura macista che prescrive che la tua donna ti appartiene come ti appartiene il tirapugni, aveva mandato due donne, due ragazzine trasformatesi in sicari, fuori da scuola ad aspettare mia sorella. A urlarle contro “puttana”, “troia”, “cos’è, hai mangiato pane e coraggio stamattina puttana?” davanti a una folla pietrificata.

Ecco, io quando qualche giorno fa ho visto la foto di questo cartellone:

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Mi sono immancabilmente incazzato come un dobermann.

Vengo subito al punto: tutte le cose che ho elencato sopra, ve lo posso assicurare, c’entrano col femminicidio, e quando degenerano ne sono la causa. Anzi: la cosa davvero odiosa, che nemmeno l’umana comprensione può sopportare, è che in questi casi femminicidio e suicidio istigato spesso si sovrappongono, uomini e donne compartecipano perché il macismo non è esclusivo di uno solo dei due sessi.

E vi posso assicurare anche un’altra cosa: che l’aborto non c’entra nulla col femminicidio. Che chi ha scritto quei cartelloni infami lo ha fatto in malafede, e che non è nient’altro che l’ennesimo rigurgito purulento del male, quello che strumentalizza, confonde, si spaccia morbosamente per un bene, seduce e ammalia con i suoi cliché, le frasi fatte, quelle che se te le ripeti abbastanza sono in grado di deformare la realtà.

La negazione dell’aborto, perpetrata a spada tratta dai mentecatti che si nascondono dietro il ditino della “obiezione di coscienza”, ecco, quella sì che causa un po’ di problemi. Tipo una stima di ventimila donne morte per aborto clandestino negli anni ’70. O forse il fatto che all’annus domini 2012 l’aborto clandestino era la causa di morte di una partoriente su sette in tutto il mondo.

Una mia conoscente poco tempo fa è andata da tre medici diversi per cercare di abortire: tutti e tre obiettori, tutti e tre l’hanno osservata con lo sguardo sdegnoso dei timorati di Dio, tutti e tre hanno cercato di convincerla a non farlo. Come se una lo facesse facilmente, tipo “ok, la lista delle cose da fare oggi: alzarsi, truccarsi, vestirsi, andare ad abortire un bambino che non voglio, andare al lavoro…”. E siamo a Milano eh, e quelli sono medici, mica stregoni di un villaggio disperso nelle foreste del Burkina Faso. Ma niente: nel 2018, per abortire, alla fine, una donna a momenti è costretta a far da sé.

D’altra parte siamo il Paese in cui, durante la mostruosa campagna elettorale delle elezioni 2018, sono circolate migliaia di bufale che definivano Emma Bonino un’assassina per aver aiutato ad abortire delle donne negli anni ’70.

Il paese in cui se abortisci sei una furiosa omicida, ma se tormenti una ragazza fin quasi a spingerla a fare un passo oltre il cornicione del balcone di casa sei un maschio alfa e dominante e allora applausi, applausi a te che sei l’incarnazione del male più devastante: quello compiuto da Nessuno.

 

 

Appetiti

A distanza di tre anni dal delirante, folle, nevrotico “How Big, How Blue, How Beautiful”, Florence Welch (ormai diventata sineddoche vivente per indicare tutto il suo gruppo, i Florence and the Machine, solo che della Machine pare non freghi mai una wallera a nessuno) tornerà a fine giugno con un nuovo album, “High as Hope”, da cui sono già stati estratti due singoli: “Sky full of song” e “Hunger”.

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Una scena del video di “Hunger”, diretto dal regista barcellonese AG Rojas.

Se il primo singolo era più spento, riflessivo (tutti modi eleganti per dire che dopo averlo ascoltato mi sono dovuto riattaccare le balle col Vinavil) il secondo è un viaggio breve, ma intenso e affascinante, nella vita di Florence Welch. Le lyrics alternano una serie di riflessioni della nostra impetuosa redhead a quelli che sembrano piccoli frammenti di discorso diretto, a lei rivolti probabilmente da un amante lascivo (“il modo in cui muovi il corpo, bellezza, scuotilo un po’ per me”).

Gli appetiti (“Hunger”, usato però come countable, e quindi non come “senso di fame”, ma “appetito” – sessuale? conoscitivo?) di cui parla Florence sono forse quelle brame che abbiamo tutti (“we all have a hunger”), brame che spesso troviamo soverchianti, spaventose. La Welch sembra dirci che è umano cercare di placare i nostri desideri in ogni modo – chi con l’amore, chi con la droga, chi esibendosi su un palco, come ha provato a fare lei – ma che quell’hunger, quell’appetito frustrato, rimane parte di noi. Svolta leopardiana di Florence: spero solo che le altre canzoni dell’album non parlino tutte della luna, di una certa Silvia e di quanto sarebbe bello schiattare giovane se sei un cesso.

Il video, diretto dal regista barcellonese AG Rojas, non è meno carico emotivamente. E chissà che quella statua, manipolata e idolatrata in questo video un po’ come Florence veniva adorata da una moltitudine di uomini oversexed nel video di “What kind of man”, non sia proprio l’oggetto multiforme degli appetiti di cui parla la canzone. Del resto, chiunque nel video si interfacci con la statua sembra proiettare nei suoi confronti un desiderio diverso, come diversificato è il desiderio incarnato in ognuno di noi.

Ad ogni modo, “High as hope” si preannuncia come l’album dell’equilibrio e dell’introspezione, quello in cui dell’enorme, bluastra, meravigliosa tempesta che era stato l’album precedente rimane solo l’eco lontana.

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P.S.: chi mi conosce sa che più di due settimane fa (ben prima dell’uscita del video di “Hunger”) mi sono tatuato una tizia circondata da serpenti con in mano un germoglio che emette luce. E mo questa redhead copiona e ubriacona mi plagia l’idea del soggetto con in mano il germoglio. Io TI DENUNZIO, Fiorenza, tu e la tua macchina strombazzante.

 

 

 

Cose della mødå passata e presente che nel 2018 ci fanno cagare

La mødå (pron. “moedae”, plur. “mødë”) è una categoria trascendentale del trash che comprende, tra le altre cose, il mondo della moda vero e proprio, le tendenze, gli stili di vita.

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Ultimamente tutti e tre questi sottoregni sembrano divertirsi sadicamente a sfornare vere e proprie schifezze: tra Crocs di Balenciaga con un plateau di gomma alto e pesante come un ferro da stiro degli anni ’30 e outfit “normie” che speravamo rimanessero esclusiva delle zone di periferia di Cracovia, proverò a fare una cernita delle mødë passate e presenti che ci fanno sperare in un’Apocalisse.

Mødë Passate.

I colpi di sole. Prendete una bottiglia di acqua ossigenata a 130 volumi (roba da farvi pure lo sbiancamento anale se volete), uno scolapasta, un uncinetto ed è fatta: avete tutto l’occorrente per farvi i colpi di sole. Una mødå che nel 2003 vi rendeva ragazze ribelli, trendy, ma che nel 2018 urla con voce stentorea “vivo al campo Rom qua a fianco”. Voi fateveli pure se volete, ma poi non lamentatevi se qualche mamma leghista vi evita perché ha paura che vi nascondiate suo figlio sotto la gonna.

Il baffo che conquista(va). Se nel 1985 un paio di bei baffoni potevano far ottenere a un homo sapiens masculini generis vuoi una ravanata alle pere di qualche starlette vuoi una trombata in una dark room, nel 2018 sembrate tutti quanti quello zio acquisito strano che tocca i bambini. Decidetevi: o quei cosi li tagliate e magari vi passate pure l’erbicida per evitare di rifare lo stesso errore in futuro, o vi fate crescere la barba completa. Tertium non datur.

I tatuaggi tribali. A quali tribù volevate appartenere quando ve li siete fatti negli anni ’90 ancora non lo sa nessuno, ma nel 2018 vi siete guadagnati il posto nella tribù di quelli-che-si-pentono-di-essersi-fatti-un-tribale-e-se-lo-vogliono-coprire. Il problema è che a volte siete recidivi e a coprire il tatuaggio andate da quello che in gergo viene chiamato “scratcher”, che italianizzato sarebbe “mio cuggino quello che fa i tatuaggi nel garage”. E così i tribali diventano peonie marce o gargantuesche croci nere del Signore Iddio Onnipotente, con poteri taumaturgici tipo quello di azzerare la libido perfino alla più navigata delle pornostar.

Le calze color carne. In grado di trasformare Cara Delevingne in Anna Mazzamauro, la loro versione più piccola è il gambaletto dello stesso colore, normalmente indicato come efficace dispositivo antistupro. Vostra nonna le usava per andare a folleggiare nelle balere di Rosolina a Mare e va benissimo, ma voi che le mettereste pure per andare al Coachella fareste prima ad andare in giro con uno striscione con su scritto “ALTOLÀALCAZZO”.

Mødë presenti

Il normcore. Andate da Decathlon, comprate un paio di sneakers, una tuta e un piumino, il tutto grigio toporagno. Mettetevi tutto quanto e andate in giro dandovi un ennui esistenzialista ed è fatta: siete normcore. No, non siete normcore: a prescindere dal sesso sembrate solamente delle badanti moldave che hanno esagerato con la vodka, con le palle girate perché vivete in un paese lontano dal vostro e dovete stare dietro a un nonnino con l’Alzheimer che ogni tanto cerca di picchiarvi col bastone. Stop.

Il berretto corto. Per farvi capire, parlo di questo affare. Un miscuglio tra la papalina di Papa Francesco e una coppa mestruale, ultimamente sembra il must have degli uomini che portano anche i sopracitati pedo-baffi. A un’estetica che è il non plus ultra della bruttezza si unisce la sua totale inutilità, posto che se è inverno scaldarsi solamente un pezzo di testa e non le orecchie è roba da veri lobotomizzati. Ma ovviamente far sembrare a tutti che stamattina vi siete messi in testa il cucuzzolo di un preservativo è anche peggio.

I tatuaggi cliché. Devo pure elencarveli? Infinito in primis, seguito da fantasiosi scacciasogni e patetici soffioni i cui semi volanti diventano rondini, i portatori di tatuaggi cliché difendono le loro opere d’arte con il classico “sì ma per ognuno hanno un significato diverso”. Sarà anche così, ma per noi significano solo che la prossima volta i 350 euro è meglio se li spendete da uno psicologo che lavori sulla vostra personalità. E per carità, andate da un professionista a farveli fare se proprio dovete, perché se l’infinito sembra una zanzara morta, lo scacciasogni un buco di culo con sotto delle piume di tortora cacatrice e il soffione un cono gelato da cui fuoriescono dei cacciabombardieri, la prossima trombata la fate tra due ere geologiche.

 

Perché Selbstdenken – lo straccia palle

Alla fine ho aperto un blog. Dico “alla fine”, ma la verità è che è solo un inizio. Spero.

Volevo un nome sobrio, facile da ricordare, dalla sonorità seducente. Quindi ho naturalmente scelto una parola tedesca (che si sa, il tedesco è la soave lingua dell’amore per i sandali con le calze bianche di spugna e dei pranzi a würstel e cappuccino), che tra l’altro è stata usata solo da qualche filosofo illuminista e, naturalmente, da una delle filosofe più straccia palle della storia: Hannah Arendt.

Tradurre Selbstdenken comunque è facile: selbst = -auto, su per giù. Denken = pensiero. Pensiero autonomo. Se io ce l’abbia o meno non lo so, ma ci provo.

La dicitura “straccia palle” è un epiteto che sta a me personalmente come “pallade” stava ad Atena e “comunista di merda” pare stia a chiunque, nel 2018, si azzardi a non inseguire col forcone un diversamente bianco che non fa sedere un vero ariano su un tram.

Ci metterò un po’ di tutto qua sopra. Racconti, pezzi di racconti, pensieri deliranti, flussi di coscienza e altre cose che erano originali ai tempi di Hemingway e oggi sono deteriorate grazie agli abusi degli hipster. Mantenendo il tono politicheggiante di poc’anzi, sarà un po’ una Casa delle Libertà, dove “facciamo un po’ come cazzo ci pare”, per dirla con Guzzanti.

E allora benvenuti. Leggete, commentate, kondividete!1!1!!, insultate solo se ci mettete la faccia. Per il resto, fate un po’ come cazzo vi pare.